Le radici antiche della nostra multietnicità


Oggi si parla molto di società multietnica e di integrazione come di argomenti nuovi, ma se per etnia s’intende un raggruppamento umano basato su caratteri somatici, linguistici, religiosi o culturali, noi, qui in Calabria, possiamo innalzare la bandiera della multietnicità e dell’integrazione perché la Calabria, da secoli, ha accolto numerosi popoli, sia accettandone pacificamente l’insediamento, sia subendo invasioni che a poco a poco si sono trasformate in civile convivenza. Forse per questo da noi il razzismo o comunque il rifiuto dello straniero non ha solide basi.
Se andiamo indietro nel tempo, vediamo greci, latini, normanni, arabi, bizantini, ebrei, albanesi, valdesi, spagnoli, francesi: insomma una varietà di gruppi umani che, parlo anche dei conquistatori, si sono mischiati alla popolazione locale rendendo, appunto, la nostra società multietnica da secoli. È noto, ad esempio, che in Calabria ci sono tre lingue minoritarie: albanese, occitanico e grecanico, parlate, rispettivamente, le prime due nella provincia di Cosenza e il grecanico nella fascia ionica reggina. Per non dire poi dell’etnia curda che vive a Badolato: unico caso, credo nel mondo, di un paese intero (abbandonato a causa dell’emigrazione) aperto a stranieri poverissimi in nome dell’accoglienza. Naturalmente, col passare del tempo le antiche differenze si sono attenuate e rischiano di scomparire nella società omogenea di oggi, anche se il sapore di tutto questo ci è rimasto nella varietà somatica che ci distingue, nei dialetti che conservano parole di origine latina, francese, araba, greca, nella cucina, negli usi e nelle tradizioni.
Questo per dire che siamo sempre stati pacificamente multietnici, anche se purtroppo la nostra storia è segnata da due episodi tragici che riguardano la comunità valdese e quella ebraica. C’è da dire, però, che non si trattò di episodi dovuti a intolleranza popolare e, inoltre, situati in un’epoca dilaniata da cruente lotte religiose e di potere.

Il primo riguarda lo sterminio della comunità valdese, di origine piemontese, e di religione luterana, professata però soltanto nel privato delle abitazioni sin dall’inizio del 1300, quando giunsero in Calabria i primi profughi. Duecento anni dopo, con l’avvento della Riforma, i valdesi chiedono di poter professare pubblicamente la propria religione. Questa richiesta scatena la reazione del papato e dei cattolicissimi spagnoli che, di comune accordo, sterminano la comunità di Guardia Piemontese, costringendo i pochissimi superstiti all’abiura. Infatti, oggi, i discendenti degli antichi valdesi, pur avendo conservato in parte i loro costumi, sono di religione cattolica.
Anche quando nel 1511 furono cacciati gli ebrei da Reggio Calabria non si trattò assolutamente di un moto popolare: l’espulsione fu voluta dagli spagnoli su pressione dei pisani e degli amalfitani che subivano la concorrenza economica degli ebrei nel campo della seta. Infatti Reggio, a prescindere dall’errore morale, ne ricavò un danno economico gravissimo perché era ricca di filande, e il commercio della seta, molto florido, decadde. A ricordo della trascorsa vita in comune di ebrei e cristiani in questa città è rimasto il nome della via Giudecca e qualche altra traccia.
Un errore che però non si è ripetuto. Infatti, quando fu aperto il campo di concentramento per ebrei a Ferramonti, durante la seconda guerra mondiale, la popolazione locale aiutò i prigionieri e, infatti, Ferramonti è stato l’unico campo dove non fu uccisa alcuna persona né alcuna fu inviata nei lager tedeschi. Credo che questo sia avvenuto non solo per antifascismo, ma proprio per l’assenza di sentimenti razzisti.

Comunque, errori terribili come l’uccisione dei valdesi e la cacciata degli ebrei è difficile che possano ancora accadere (naturalmente guardando a questi antichi episodi nell’ottica dell’intolleranza religiosa e del razzismo, e d’altronde così ci induce a credere il gesto di grande umanità di Badolato) perché ormai sappiamo non solo che il mondo è aperto a tutti, ma sappiamo anche che la cultura viene arricchita e vivificata dalla presenza dell’altro: soltanto, però, quando l’altro può esprimere liberamente la propria.
Lo scrittore Albert Camus sosteneva che la condizione comune di ogni esiliato è avere una memoria che non serve più a nulla. Ed è proprio questo che dobbiamo evitare di far accadere pretendendo un’integrazione totale, un’accettazione incondizionata della nostra cultura da parte dei nuovi immigrati per non sentirsi esclusi. Perché noi sappiamo quanto importante sia avere una memoria, possedere proprie radici. Avere delle radici non significa essere ancorati a un mondo ormai superato, significa piuttosto avere dei punti di riferimento per la propria crescita sociale e culturale. Un sentimento delle radici che da anni in Italia si sta cercando di recuperare con la valorizzazione degli usi e delle tradizioni, con il recupero linguistico dei dialetti, con la conservazione delle lingue minoritarie, e con la raccolta di canti, proverbi e modi di dire. Quindi, se per noi è così importante conservare tutto questo, a maggior ragione lo è per un esiliato o per un immigrato, persone che già vivono uno sradicamento traumatico. Quindi bisogna accogliere l’altro, aiutandolo a integrarsi nel rispetto delle sue tradizioni e dei suoi valori. Naturalmente, però, quando questi ultimi non sono in contrasto con le nostre leggi. Dico questo pensando ai tanti casi accaduti, ad esempio a quello dell’immigrato africano che ha aggredito una poliziotta italiana che lo aveva fermato per un controllo, e che lui stava quasi per uccidere perché nella sua terra costituiva una grave offesa sottoporsi al giudizio di una donna; oppure pensando alle aberranti pratiche a cui vengono sottoposte le bambine in alcune zone del mondo.

Ecco, in questi casi, quando le leggi e le tradizioni di un altro Paese cozzano con le nostre, è naturale che prevalga il rispetto della legge del Paese ospitante.
Comunque, se da noi il razzismo è solo un fatto isolato, io credo che sia da attribuire a tre fattori fondamentali: il tempo, il fatto di vivere sulle sponde del Mediterraneo e la memoria della povertà.
Quando parlo di tempo, parlo di decenni e decenni. Così come a due persone per conoscersi a fondo non basta a volte una vita intera trascorsa insieme, etnie diverse hanno bisogno di molto tempo per superare la diffidenza che suscita la diversità, e consentirsi così timide aperture che porteranno poi al rispetto reciproco e, quindi, a una civile convivenza. E qui in Calabria contiamo secoli di convivenza.
Il secondo fattore è quello di vivere sulle sponde di un mare comune come il Mediterraneo. Già il fatto di affacciarsi su uno stesso mare costituisce un legame basato su fattori climatici che influenzano il modo di vita; legame che viene accentuato dalla facilità delle comunicazioni e quindi degli scambi commerciali che sono un’importante forma di contatto. In più, il mare racchiude elementi simbolici e fisici che appartengono a tutte le culture marinare: i mostri marini, le sirene, i pirati e le torri di avvistamento per sfuggire alle loro incursioni, i viaggi fantastici per acqua intrapresi dai personaggi delle narrazioni orali e scritte, i grandi pesci, il paesaggio con i suoi colori; insomma, tutto un mondo che accomuna l’immaginario di etnie diverse. Da noi, quindi, è stata forse la condivisione delle esperienze di vita reale e fantastica sul Mediterraneo ad abituarci sin dai tempi antichissimi alle molteplici forme di rapportarsi alla vita.

Il terzo fattore è la memoria della povertà. Il popolo calabrese è stato uno dei più toccati dalla miseria. Interi nostri paesi sono stati svuotati dall’emigrazione interna, specialmente nel nord d’Italia, e dall’emigrazione in Paesi più lontani quali la Germania e il Belgio o lontanissimi come l’America del Nord, del Sud, e l’Australia. Specialmente nei paesi delle zone interne, storicamente le più povere, non c’è famiglia che non abbia qualche parente emigrato; e queste sono cose che non si dimenticano, sono cose che se magari non fanno scattare una completa solidarietà verso la persona extracomunitaria, fanno comunque scattare la comprensione.
L’unica etnia con la quale non c’è stata integrazione né confronto (eccetto sporadici casi) è quella nomade. Ed è un errore che paghiamo adesso, e pagheremo di più in futuro, perché se non diamo ai rom la possibilità di un inserimento, e per fortuna ci sono qui associazioni che stanno lavorando in questo senso, ci ritroveremo in balìa della microcriminalità. È purtroppo vero che nei riguardi degli zingari, benché essi siano presenti sul nostro territorio da secoli, esiste del razzismo, ma credo sia dovuto al fatto che il loro essere nomadi (anche se adesso non lo sono quasi più) ha impedito contatti continui, fondamentali per integrazione e accettazione.

Ecco, fin qui abbiamo parlato della nostra storia caratterizzata dalla convivenza di molte etnie, della nostra disponibilità all’accoglienza e della nostra tolleranza, ma tutto questo è sufficiente per poterci definire antirazzisti? La risposta non è così lineare come parrebbe viste le premesse perché, forse, la verità è che molti di noi non sono razzisti finché non c’è motivo di esserlo. Infatti, mi viene in mente il film Indovina chi viene a cena? di Kramer, con Katharine Hepburn e Spencer Tracy nelle parti di una coppia americana, bianca, di idee aperte e antirazzista, che invita a cena lo sconosciuto fidanzato della figlia, e si ritrova a dover sostenere una prova sconvolgente perché il fidanzato della ragazza è un uomo intelligente, gentile, colto e bello, ma di colore.
Un esempio che ci pone davanti alla domanda fatidica: fino a quando noi siamo antirazzisti? La risposta, purtroppo, è che probabilmente lo siamo fino a quando non veniamo toccati personalmente, e fino a quando la maggioranza che ci circonda è del nostro stesso colore di pelle o professa la nostra stessa religione o comunque condivide il nostro stesso modo di vivere. Altrimenti è possibile che scatti il rifiuto del diverso.
E forse forse non si tratta neppure di vero razzismo, inteso come odio, magari è semplicemente un fatto culturale, perché noi siamo anche il nostro passato, e cioè ognuno di noi si trova a proprio agio in una società che lo rispecchia e in cui può rispecchiarsi; una società che conosce, educata più o meno in base alle stesse regole, dove i cibi conservano i sapori dell’infanzia e magari sono capaci di farla rivivere (penso ad esempio alla famosa madeleinette di Proust che dà origine al suo affascinante Alla ricerca del tempo perduto), dove ci si veste, sempre più o meno, allo stesso modo, dove l’arte è l’espressione di un sentire comune, dove la scuola segue itinerari didattici comuni e, insomma, dove ognuno si sente ramo, radice o foglia dello stesso immenso e secolare albero.

L’arrivo di pochi elementi estranei in questo caso è visto come una novità ben accetta perché controllabile, e perché in genere i pochi si integrano facilmente, e magari col tempo si amalgamano. L’arrivo invece di una grande massa potrebbe far scattare un senso di minaccia. Perché non sono soltanto gli animali a segnare il loro territorio, lo facciamo anche noi, lo facciamo quando delimitiamo le nostre proprietà private e pubbliche, e giustamente diciamo “la mia piazza, il mio quartiere, la mia città”, e lo facciamo quando mettiamo dei limiti alla vicinanza con un individuo sconosciuto o non amico, un estraneo che se parlando si avvicina troppo ci crea disagio e, appunto, senso di minaccia. Ovviamente, il sentirsi minacciati genera paura, e la paura genera chiusura e ostilità, quindi razzismo. Tutto questo per dire che nessuno è immune dal razzismo, ci possiamo cadere tutti se si creano situazioni particolari che potrebbero originarlo, e quindi ognuno di noi deve sforzarsi di vedere nell’altro un uomo, magari diverso da lui per impostazione culturale o relegiosa, ma comunque un suo simile.
Mi piace concludere con una strofa tratta da una poesia di Agostinho Neto, un poeta africano, protagonista del movimento di liberazione dell’Angola. La poesia si intitola: Sanguinanti e germoglianti e riguarda il tema della pace, ma sono versi che riguardano anche il nostro argomento perché non vi può essere convivenza pacifica in nessun luogo senza il principio della fratellanza. La strofa che ho scelto recita così: “Ecco le nostre mani/aperte alla fratellanza del mondo/per il futuro del mondo/unite nella certezza/per il diritto per la concordia per la pace/Sulle nostre dita crescono rose…”

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