Due modi diversi di rapportarsi alla memoria dei campi gennaio 2003


Leggo in un quotidiano locale che la signora Elisa Springer, autrice del libro Il silenzio dei vivi -una testimonianza dell’orrore vissuto nel lager di Auschwitz- ha partecipato a una delle riunioni di preghiera che si svolgono a Paravati, alla presenza della mistica Natuzza Evolo. La signora Springer, nata a Vienna e di origini ebraiche, soltanto in tarda età è riuscita a parlare della sua atroce esperienza; un silenzio comune a molti sopravvissuti che, per timore di non essere creduti, hanno preferito tacere. In effetti c’è in noi la tendenza a rimuovere il dolore, sia il nostro, sia quello degli altri perché la sofferenza è una cattiva compagna di vita. Il tentativo di sfuggirla accade nella vita quotidiana, figurarsi poi davanti all’estremo orrore dei campi di sterminio che non solo hanno causato pena infinita, ma hanno fatto vacillare il nostro concetto di umanità, intesa come amore e rispetto per gli altri, come solidarietà, come insieme di valori morali e spirituali che dovrebbero appartenerci.
Ed è per questo che è stato istituito "Il giorno della memoria", per non dimenticare la caduta dell’uomo e la sofferenza delle vittime.
Quello che mi ha colpito nella testimonianza della signora Springer è stata la sua volontà di perdonare trasformando l’odio in amore.
Un modo diverso di affrontare la vita, dopo l’orrore vissuto, da quello scelto da Simon Wiesenthal che ha speso il resto della sua esistenza nella ricerca dei colpevoli. Wiesenthal non ha mai taciuto, non ha mai avuto timore di non essere creduto, non si è mai lasciato andare a un odio indiscriminato, ma non ha mai perdonato -Auschwitz non consente perdono- ha sempre perseguito i responsabili, stanandoli anche dopo decenni, in nome della giustizia dovuta non solo alle vittime, ma alla stessa idea di uomo.

Ognuno di noi può parteggiare per l’una o l’altra scelta, così come può credere che Dio sia morto ad Auschwitz -ne La notte di Elie Wiesel c’è un passo terribile: i prigionieri sono costretti a sfilare davanti a tre persone impiccate, due delle quali adulti, il terzo è un bambino che agonizza a lungo, e quando Wiesel ode un prigioniero domandarsi dove sia Dio in quel momento, il suo cuore, guardando il piccolo agonizzante, risponde che Dio è appeso lì, a quella forca- oppure può continuare a credere in Dio, privato però di uno degli attributi che l’uomo gli ascrive, e cioè l’onnipotenza -come afferma il filosofo Hans Jonas nel suo breve saggio di teologia speculativa Il concetto di Dio dopo Auschwitz- oppure ancora può accettare l’esistenza di un piano divino (comprendente in assurdo anche Auschwitz) che, in quanto tale, è inconoscibile e incomprensibile alla mente umana.

Qualunque sia il nostro pensiero, l’importante è perseverare nella speranza che "Il giorno della memoria" ricordi a tutti noi i limiti dell’uomo, le atrocità a cui può arrivare, e, nell’accettazione del ricordo, far sì che simili orrori non si ripetano più. Una speranza che bisogna sempre ricostruire, educando gli animi all’amore, anche quando la tragica realtà in cui viviamo sembra disperderla.

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