Ad memoriam
Se qui ancora qualcuno canta, sono armonie di morti perché di morti fecondi si è nutrito il mare che a terra disciolti li riporta, in un groviglio di onde e di risacca; il resto è fastidioso stridere di voci che non sanno il giusto orgoglio d’esser vive.
La costruzione
Fu questa la terra dove mio padre il greco approdò esultando.
“Ecco, guardate” disse “Ecco laggiù la femmina che tra le amorose braccia avvince forte il maschio. Né venti contrari né tempeste ci confusero la rotta, ma zefiri soavi e languidi scirocchi sospinsero piano i nostri legni a un sicuro porto. Guardate l’Apsia! Guardate come regale e maestoso il fiume con lenta superbia scorre, tra forti giunchi e rigogliose sponde. Fu il dio di Delfi a stabilirci il fato, e qui -dove a lui piacque guidarci- noi fonderemo una nuova patria.”¹
Ma io non sono Nosside di Locri che si guardò attorno con occhi sorridenti di mirto e di frusciante bisso, né sono Ibico d’amore innamorato. Io vedo, e quel che oggi vedo sarebbe meglio non averlo visto.
Se il verso è una scrittura
che lacera le carni
lacerata sto al fondo dell’abisso.
Col tempo qualcuno giurò che Apollo non c’entrava affatto, il dio era un altro e altra la sua essenza. Sarà così, dissero in molti, tuttavia questo non muta l’intima bellezza.
Io non so di quale dio parlare, ma se regina delle acque non è più la fata, mai più la chiamerò Morgana, però ditemi voi un nome, un nome che risuoni del mistero guizzante tra i fondali di queste azzurre rive.
Anche soltanto un nome
-sillabe mai dimenticate-
sa divampare il cuore.
La nebbia sullo Stretto
È questo il segno del tempo che svilisce il legame che un giorno avvinghiò un dio, ormai disamorato, al suo ridente sogno: questa nebbia che aleggia sullo Stige, e Caronte sospende dai suoi viaggi, questa nebbia che avverte e intimorisce in questa fine d’ottobre così dolce.
“Le stagioni oggi non sono più le stesse. Si è mai vista la nebbia qui sul mare? E lei, signore, che ne dice? Tempo fa hanno pure pescato un polipo a puntini bianchi e neri -certo che no, non l’hanno poi mangiato- e là sui monti hanno scoperto lo scheletro di una balena. Eh sì, oggi le stagioni non sono più le stesse! E accadono anche strane cose che non si capiscono”.
Eredità di parole quotidiane
bene accette in altri momenti
-perché la vita è anche povera cosa-
risuonano adesso vuote e spente.
La distruzione
I
Iniziammo piano, disquisendo se tra l’opera dell’uomo e la natura esistesse uno spazio dove collocare la vanità che non offende il bello, il progresso che si ferma là dove il magico ha edificato un regno.
Tuttavia, l’inviolabile sacralità di quello che fu creato, o si creò da solo nei millenni, conobbe presto la rovina -tra un sorbetto alla vaniglia e una spremuta ghiacciata di limone- nel misero giro dei giorni che conta un cinquantennio.
Non fu guerra d’eroi né epica battaglia, non fu volere di feroci dei né vendetta per l’offesa che brucia anima e sangue. Il crollo avvenne con lunga agonia, un tradimento studiato a tavolino -dico bene arroganti d’infimo livello?- tra una granita di caffè con panna e una croccante sfogliatina.
Ma traditori furono Giuda e Caino, e tradì Bruto così come tradì Cassio. No. Tradimento è pur sempre una grande parola: è ira che offusca, gelosia che corrode, è vindice gesto di un cuore confuso, a volte è persino lo specchio nascosto che strazia di linee incrinate le nostre chiare figure. No. Tradimento è pur sempre una grande parola e usarla con voi è uno spreco d’onore.
II
Non superba di forme, ma dolcemente avvolta in una lucente trama di zagara e leggenda stava la mia città, già perse le antiche bellezze per i profondi suoi bruschi respiri, già persa per levantini saccheggi, ormai vecchia signora dimentica di ellenici accenti, un po’ svanita forse nel suo ostinato conservare trine e merletti di anni migliori.
Io la ricordo nel tempo in cui, bambini, gli anni sfuggono alla memoria, lasciando nell’età matura un insieme di istanti e di atmosfere.
E rivedo il passeggio al gusto del saluto in via Marina, il fermarsi intenerito dei colori sulle facciate, sulle panchine di pietra, sugli zampilli delle piccole fontane, in un variare di toni capriccioso, rosa, violetto, azzurro, oro, tra le radici degli eucalipti che serpentine alzavano il selciato, e le frontali cime dei Peloritani.
E passavano le estati in notti profumate spargendo blu lunare sullo Stretto, mentre noi, le braccia poggiate al brunito ricamo della balaustra che segnava il lungomare, ascoltavamo lo scirocco indugiare tra le palme e sospirare.
III
Iniziammo così, ingenuamente disquisendo, sui modi in cui il passato dal futuro si difforma.
“È solo questione d’immagine, mai d’essenza” precisò qualcuno “Il tempo crea e distrugge per ricreare ancora, in un ruotare d’epoche e di miti che sanno la scienza, la scoperta, il nuovo, e tuttavia presto divengono passato. Così come noi, che saremo quelli che oggi siamo, e che ieri siamo stati.
“Io dissento” interloquì un altro “Questo non è tempo di Sfingi o di Piramidi; per quanto grandi furono i secoli precedenti, ormai la Luna ha conosciuto il nostro passo, e mirabili congegni d’ogni sorta allietano la vita o a volte la distorcono. Adesso tutto quello che sta sotto il sole è nuovo, e più non possiamo dirci noi gli stessi”.
Forma, soltanto forma, mai essenza. Colui che inventò la ruota non è diverso in nulla da chi progettò l’Apollo, muta quello che appare, ma i cuori sono eguali, vizio e virtù, malvagità e purezza, passioni d’amore o di violenza, sottendono allo svolgersi di qualunque tempo. Quindi, che il futuro avanzi con il suo progresso. Soltanto, ricordiamo che da noi dipende l’evolversi dignitoso e giusto d’ogni cosa.
IV
E intanto che noi, fiduciosi amanti di parole, dissertavamo del giusto e assoluto, voi le porte della città apriste alla vergogna. Entrarono i ladri e con voi sedettero a banchetto, vennero anche gli assassini e a loro vi unì l’identica misera brama celata da verbosi inganni; sangue e danaro come in un trito film di second’ordine, proiettato su tutti i nostri muri, tra l’incuria di chi nello scempio misurava soltanto la propria fortuna e l’ignavia di chi null’altro vedeva se non l’ineluttabile segno del proprio destino.
Reggio Fata Morgana
Reggio Glauco e Scilla
Reggio Guerrieri Filosofo Terme
Reggio Castello Aragonese
Reggio Lungomare
Reggio dove le stagioni si confondono in una continua primavera di bergamotti, d’arance e di limoni, dove lo Stretto rinnova l’incanto arabescato dei colori, Reggio fu per voi città di subdola conquista. E per noi fu il dolore della sua rovina.
Sappia il dio, che la sognò, punirvi per il suo aspro risveglio.
¹ Narra Diodoro che Reggio Calabria fu fondata da Calcidesi costretti a emigrare a causa di una carestia. Consultato l’oracolo di Delfi, ottennero questa risposta: “Dove l’Apsia, il più sacro dei fiumi, si getta in mare, troverai una femmina che sposa un maschio; lì fonda una città, perché il dio ti concede la terra Ausonia”.
Effettivamente, vicino al fiume Apsia trovarono una vite intrecciata attorno a un fico selvatico e fondarono in quel punto una città. (da: Jean Bérard, La Magna Grecia). Secondo il mito, invece, a fondare Reggio fu Aschenez, pronipote di Noè.