Nosside, in viaggio a ripercorrere il mito agosto 2001


Una kore greca, una statuetta di terracotta che, con delicata plasticità, raffigura una donna vista di spalle nell’atto di sollevare un lembo di peplo per non inciampare, o un volto sul quale aleggia un accenno di sorriso affascinante e misterioso quanto quello enigmatico della Gioconda, o ancora un giovane nudo, un kouros, che sorregge uno specchio: sono i corpi e i volti scolpiti nella pietra, nel bronzo, incisi su tavolette votive o dipinti sui vasi, degli indimenticati abitanti della Magna Grecia che il tempo ci ha tramandato. Sepolti per secoli da capovolgimenti tellurici, alluvioni, da crolli dovuti ad antichi abbandoni e guerre, da distruzioni di levantini pirati, da anni ormai fanno bella mostra di sé nel Museo di Locri che li espone in teche di cristallo, insieme a innumerevoli altri oggetti di vita quotidiana rinvenuti sul posto: gioielli ormai corrosi, ma dei quali si nota la deliziosa fattura, monete, vasi panciuti o slanciati a figure rosse con scene domestiche o dionisiache, specchi in bronzo, giocattoli raffiguranti piccoli carri, astragali di animali per giocare agli stessi giochi che facevamo anche noi da bambini con le noci, lacrimatoi, ampolle per conservare i profumi, anfore piccole e grandi per i cereali, per l’acqua, il vino, il miele o il sidro.
Quando in estate da ragazzina andavo con i miei genitori in gita sulla costa jonica (una volta all'anno perché verso la metà degli anni Sessanta la macchina era ancora un lusso, e poi la nostra meta abituale era la vicina Pentimele) non conoscevo né l’antica memoria di Caulonia né l’orgogliosa storia di Locri. A Locri ci fermavamo per un gelato e poi correvo sulla larga spiaggia, a quel tempo quasi deserta, a fare il bagno e a giocare senza sapere che alle mie spalle esistevano le vestigia di una delle più potenti città della Magna Grecia.

Un percorso fisico e culturale che da grande ho poi fatto molte volte, alla ricerca dell’atmosfera del tempo per ricrearla in un racconto che aveva come protagonista Nosside, l’unica poetessa della Magna Grecia o, se non la sola, l’unica però della quale ci rimangono versi (a lei è intitolata un’associazione culturale, una scuola elementare e un premio di poesia, oggi internazionale).
Nosside nacque alla fine del IV secolo a. C. proprio a Locri Epizephyrii, allora circondata da una cinta muraria di sette chilometri e mezzo, forse nella città alta, l’antica Epopi, in una grande abitazione disposta a pianta rettangolare intorno a un cortile. Mette un brivido camminare oggi per sentieri erbosi che un tempo erano strade dove risuonavano voci, risate, richiami e i suoni provenienti dalle botteghe degli artigiani; mette un brivido sedersi sui gradoni consunti del teatro e pensarlo gremito di folla che tacitava il brusio dell’attesa quando, alle prime luci del tramonto, la rappresentazione aveva inizio e le voci degli attori si spandevano con sonorità all’intorno, grazie alla perfetta acustica del teatro. Seduti lì basta chiudere gli occhi per immaginare tra il pubblico la figura di Nosside avanzare alla testa di un gruppo di belle fanciulle nel suo ruolo di maestra di tìaso, associazione in onore del dio Dioniso; o arrivare nella cavea in compagnia dei nobili in quanto nobile lei stessa oppure accompagnarsi ai nobili in qualità di etèra, cortigiana che conduceva vita galante coltivando l’arte della poesia. Nessuno sa chi sia stata realmente Nosside, questa donna colta che ci ha lasciato bellissimi versi, come quelli che cantano le lodi a Rintone di Siracusa, autore di fliaci tragici, ilaro-tragedie che di certo le erano particolarmente piaciute.

Forse Nosside mi affascina anche perché è avvolta dal mistero del tempo, un mistero che rimarrà eterno: di lei nessuno mai ci potrà dire la dolcezza dello sguardo o la superbia né mai sapremo la vera forma del corpo o delle mani. Troppi secoli trascorsi. Troppe orme di tempo hanno mutato il suo vivere dal nostro. Ma i luoghi sono gli stessi, e conservano rovine che tra profumi di zagara e languidi scirocchi ancora testimoniano di un antico mondo.
Eppure, anche se è bello immaginarla, conoscerne le vere fattezze non è importante: di un poeta non necessita il volto, l’essenziale è la sua poesia, i versi in cui il nostro essere s’immerge alla ricerca di una perfezione interiore che plachi il nostro inquieto desiderio d’assoluto.
E di Nosside, se non la figura, possiamo ricostruire la voce, attraverso i dodici epigrammi rimasti che si possono leggere nell’Antologia Palatina e in altre traduzioni. Una voce nata dai primi viaggi greci avventurosi, e dagli orgogliosi splendori di una civiltà che sui nostri lidi conobbe i propri fasti.

Nosside è uno dei simboli di quella trascorsa grandezza. Raffinata, sottile indagatrice, tanto da saper svelare con l’acutezza di un solo verso la ricchezza interiore delle figure che tratteggia, molte delle quali sono care amiche sue. Per ognuna di loro ha un augurio e un aggettivo gentile, di tutte mette in risalto le doti più belle: di Callò la soavità e la grazia, di Thaumareta la delicata e giovane allegria, di Melinna la dolcezza, di Sabàithis la maestà e bellezza. Ma quale donna saprebbe tessere così sinceri elogi se non racchiudesse in sé stessa le qualità interiori che nitide le appaiono su altri volti? Ed ecco da questi e dagli altri epigrammi prendere forma il suo essere donna: squisitamente femminile, pronta a cogliere ogni sfumatura di bellezza, amante di tutto quello che suscita emozioni, orgogliosa del luogo che l’ha vista nascere, la splendida Locri Epizephyrii, e dei suoi valorosi abitanti.

Sempre sorridente sembrerebbe di scorgerla intenta a tessere, insieme a Theuphìlis, la madre, una tunica di bisso da offrire a Hera Lacinia: “Èra venerata, che spesso dal cielo venendo/l’odoroso Lacinio scendi a guardare/accogli la veste di bisso che assieme a Nosside figlia/splendida tessè Teofili di Cleoca”. E proprio questo epigramma sembra smentire le congetture fatte su di lei, lasciando spazio a una sola possibilità: Nosside apparteneva all’aristocrazia locrese.

I motivi che spingono a questa conclusione sono quattro:
già il tessere insieme alla madre suggerisce un’idea di riservatezza e serenità che non caratterizza certamente una focosa seguace di Dioniso (basti ricordare le mènadi o “invase da furore” che fecero a pezzi l’inconsolabile cantore Orfeo, colpevole di aver rifiutato le loro profferte amorose in quanto ancora innamorato della defunta sposa Euridice); 

il santuario dedicato a Hera Lacinia si trovava nel territorio di Crotone (a Capo Colonna, sul promontorio lacinio dove sorgeva di fronte al mare, è rimasto di esso soltanto una stupenda colonna), quindi molto lontano da Locri dove ce n’erano altri tre: uno in Contrada Marasà, l’altro nella località Casa Marafioti e infine quello dedicato a Persefone, fuori della cinta muraria. Ma, nonostante la grande distanza, Nosside vuole rendere omaggio a Hera Lacinia con la tunica di bisso, e siccome la dea era la protettrice dei matrimoni è logico pensare che Nosside desiderasse ingraziarsela per il suo futuro da sposa, esattamente come oggi si rivolgono voti o doni a santi diversi per vedere esaudite specifiche grazie;

se Nosside fosse stata un’etèra non ci sarebbe stato motivo di tessere la tunica da portare in voto alla dea del matrimonio;


tessere a quel tempo una tunica di finissimo lino, tessuto elegante che veniva in genere usato per vesti lussuose, e possedere la cultura necessaria a scrivere così bellissimi versi, erano peculiarità che certo non appartenevano a tutti, anzi erano prerogative della classe nobiliare.

Dunque Nosside era una poetessa di nobile lignaggio pronta alle nozze o già sposata. Ma rimane comunque misterioso l’uomo che amava. Così come il suo volto ci sfugge, anche questa nostra curiosità non potrà mai essere appagata. “Dolce più dell’amore nulla: seconda viene pur la più dolce fra le dolci cose”, così dice Nosside. Ma nessun nome mai né velati accenni a struggenti desideri nati da un particolare sguardo traspaiono dai suoi versi, forse perché sono andati perduti gli epigrammi dove amati lineamenti scaturivano dall’inquietudine del sentimento. Un sentimento che forse, però, non raggiunge mai apici d’intensa passionalità né suscita tormentosi interrogativi perché Nosside è una donna forte, sicura. Nosside guarda e coglie con estrema precisione il bello ovunque e da qualunque cosa esso sgorghi.

Ci inducono a queste conclusioni il tono d’eleganza sorridente che traspare dai versi di questa antica locrese mentre, ammirata, dipinge la soavità di uno sguardo o la magnificenza d’una statua d’oro, ma, particolarmente, il suo più famoso epigramma: “Amico, se tu navighi verso Mitilene, dai bei luoghi aperti, terra di Saffo, che colse i fiori delle Grazie, di’ come la terra Locrese partoriva me, cara alle muse ed a lei uguale, e che il mio nome è Nosside. Va’ ”. Si avverte nell’insieme un’aria di pacata superiorità, una voce serena, incurante di qualsiasi giudizio, la voce di una donna fiera della propria arte, intimamente conscia del proprio estro poetico.

La voce di una donna che ha saputo valorizzarsi intellettualmente e che dal proprio ingegno si sente totalmente appagata. Nulla la turba in questa sua serenità di grandezza e nulla le appare più importante della necessità di testimoniare sia il suo essere “cara alle muse”, sia l’appartenenza all’ellenica stirpe di Locri Epizephyrii.

Là dove, ancora oggi, tra spiagge dai colori africani continuano a risuonare greche memorie.

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