Scilla


Là abita Scilla, e molesto è il suo latrare. La sua voce è quella d’un cucciolo di cagna appena nato; ma Scilla è un mostro crudele: né mortale, né dio, s’allieta se l’incontra. Così Salvatore Quasimodo ci presenta Scilla nella traduzione del libro XII dell’Odissea. In effetti sarebbe difficile allietarsi trovandosi di fronte un mostro a dodici piedi e provvisto di sei teste, ognuna con una bocca munita di tre file di denti fitti, pronti a dilaniare. Eppure Scilla era una bellissima ninfa che amava, riamata, Glauco. Anche la maga Circe, però, era innamorata del bel pescatore e per liberarsi della rivale mescolò erbe malefiche all’acqua della fonte dove Scilla prendeva il bagno. Alla ninfa bastò immergere un piede per trasformarsi in un mostro. Disperata, si rifugiò in una grotta della vicina rupe a picco sul mare e da lì, protendendo i sei lunghissimi colli, si cibava di grossi pesci e marinai, tra cui sei sfortunati compagni di Ulisse. Questa è la versione più famosa, ma esistono varianti: in una è Poseidone, il dio del mare innamorato della ninfa, a trasformare Scilla in un mostro per vendicarsi dell’amore di lei per Glauco; in un’altra ancora è Glauco, un tempo pescatore e adesso semidio, ad amare la ninfa che però si ritrae perché spaventata dal suo aspetto  metà umano e metà pesce, dai capelli di alghe verdi e dalle braccia azzurre, così Glauco chiede aiuto alla maga Circe che, invece di preparargli una pozione d’amore, per gelosia trasforma in mostro la rivale.

È noto che la leggenda, insieme a quella di Cariddi sulla sponda siciliana, ricordava il pericolo di quel tratto di mare per gli antichi naviganti, a causa di venti impetuosi e correnti che, scontrandosi, causavano temibili gorghi. Ad originare questi ultimi sembra che sia anche la presenza di un’enorme grotta sottomarina con il suo risucchio; questa gigantesca cavità naturale è inoltre collegata tramite cunicoli ad altre grotte, dove si formano correnti d’aria che provocano suoni, dagli antichi trasformati nel canto delle mitiche Sirene.  
Sull’origine di questo delizioso borgo marinaro esiste un’altra leggenda che si rifà alla sua forma di aquila, visto dall’alto: la zona superiore costituisce il corpo, la rupe è la testa, e le due ali dispiegate le due anse, dove trovavano rifugio i naviganti durante le tempeste. La leggenda dell’aquila nasce da uno dei tanti desideri amorosi di Giove: mentre il padre degli dei contempla nel sole il riflesso delle fattezze della bellissima Scilla, uno stormo di aquilotti volteggia tra lui e il sole, impedendogli di ammirare la splendida ninfa. Infastidito, Giove scaglia i suoi fulmini contro gli uccelli e li trasforma in cagne uggiolanti che cadono nel Mar Tirreno. La madre aquila, di ritorno all’Olimpo, trova il nido vuoto. Disperata, chiede al dio di poter andare alla ricerca dei suoi piccoli. Giove, commosso dal suo dolore, l’accontenta. Ma quando l’aquila, dopo aver volato giorno e notte, riesce a localizzarli, invece di ringraziare il dio per il generoso gesto, attribuisce a se stessa l’abilità di essere riuscita nell’impresa. Offeso dalla sua ingratitudine, Giove le scaglia contro il solito fulmine che le squarcia il ventre. Urlando, l’aquila precipita così all’imboccatura dello Stretto di Messina, proprio accanto ai suoi piccoli, i quali vengono da Giove trasformati in scogli che però conservano la voce, in modo che i loro latrati e l’urlo di dolore della superba madre rimangano ad ammonire quanti si permettono di offendere il padre degli dei.

Mitologia a profusione, quindi, per una delle nostre località più suggestive, anche se la grandezza del mito non sempre spinge, come dovrebbe, a una maggiore attenzione per la salvaguardia della bellezza cittadina. Infatti, spesso, è trascurata la pulizia di strade e cassonetti, così come sono trascurate le facciate di alcune case, elementi di decoro ai quali non dovrebbe venir meno una  località turistica famosa in tutto il mondo.
Sulla cima della rupe troneggia il castello, un’antica fortificazione dei Padri basiliani risalente al IX secolo, che fu poi di Carlo d’Angiò nel XIII secolo, dei De Nava nel Quattrocento, per diventare infine proprietà dei Ruffo dal Cinquecento. Dal castello, ristrutturato e aperto al pubblico alcuni anni fa, si ammira un magnifico paesaggio, e in particolar modo sembra di essere riportati indietro nel tempo guardando il mare dalle feritoie degli spalti; c’è però da dire che alcune sale interne sono state imbiancate, snaturando l’austera bellezza dell’antica pietra.
Dalla parte alta del paese si può scendere a Marina Grande con l’automobile, ma è molto più bello giungervi lungo comode scalinate, ai lati delle quali si aprono abitazioni e minuscoli giardini. La grande spiaggia sabbiosa -una delle ali dell’aquila-  è cosparsa di piccole pietre levigate vicino alla riva, ed è bellissimo nuotare in quest’ansa con a destra la rupe sormontata dal castello e l’Aspromonte che scende alle spalle, allungandosi in un promontorio verde sulla sinistra: sembra quasi di stare a galla in un grembo dai mille colori. Colori che si ritrovano anche nei fondali perché questa zona è ricca di specie animali e vegetali dalle tinte sgargianti e dalle innumerevoli sfumature come gorgonie, madrepore, e piante marine di color viola che, regalando alle acque i loro riflessi, hanno fatto appunto denominare Costa Viola la zona tirrenica che va dal promontorio di Scilla a Capo Barbi, vicino Palmi. L’unica bruttura rimane la zona militare al porto, al quale si arriva da Marina Grande -conosciuta anche coma baia delle Sirene- lungo la strada che passa sotto la galleria, di recente ristrutturata.         
Tra le chiese da visitare, nel quartiere di San Giorgio c’è la chiesa di San Rocco, che si affaccia sull’omonima piazza dal cui ampio belvedere lo sguardo abbraccia la Sicilia e le isole Eolie. In onore di San Rocco, protettore del paese, si tiene una grande festa nel mese di agosto -che richiama molti emigranti da ogni parte del mondo- con due processioni e i magnifici fuochi d’artificio di mezzanotte. Alla confluenza dei tre quartieri si trova la chiesa della SS Immacolata che sulla facciata conserva sei colonne joniche della costruzione precedente; a Marina Grande si trova la chiesa di Spirito Santo, con una bella facciata e il vecchio campanile. A causa però dei continui terremoti, tutte le chiese sono state ricostruite completamente o in parte e quindi molti tesori artistici che le impreziosivano sono andati perduti.

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