Nella nostra letteratura rare pagine in rosa marzo 2002


Sono moltissimi i personaggi femminili nella letteratura calabrese, molte di meno sono invece le donne autrici di romanzi, saggi e poesie. Riguardo a quest’ultimo punto, devo confessare di non credere alla “scrittura al femminile”, anzi condivido pienamente l’affermazione del poeta inglese Coleridge, il quale, nella prefazione del 1798 alla sua Ballata del vecchio marinaio, sostiene che nell’arte non dovrebbe esistere distinzione tra maschile e femminile perché una mente superiore è androgina: quando nella mente ha luogo la fusione tra maschile e femminile, allora si ha la pienezza creativa, in quanto si riesce ad avere una visione completa della vita. Io credo che un buon libro nasca da questo tipo di mente, e tra tanti libri penso alle Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar, a Madame Bovary di Flaubert, a L’isola di Arturo e Aracoeli di Elsa Morante, oppure ancora a Orlando di Virginia Woolf, a Il senso di Smilla per la neve di Peter Høeg e a Come diventare buoni dell’inglese Nick Hornby. Quindi, sono contraria a valutare uno scritto tenendo conto del sesso di chi scrive o, anche, dell’appartenenza a un determinato luogo o tempo perché la connotazione dell’arte è l’universalità. Dante, per esempio, è certamente legato al suo tempo, però è letto da sempre in gran parte del mondo. Il sesso, il tempo e il luogo sono importanti quando si vuole capire il perché della nascita di quell’opera in quella particolare forma o il perché di un determinato contenuto, del suo rapporto con il sociale, ma tutto ciò riguarda la critica, la politica, la sociologia o la psicologia.

Quello che però dovremmo chiederci, riprendendo l’esempio di Dante, è un’altra cosa: avrebbe mai potuto scrivere una donna la Divina Commedia?

La risposta è no, perché una donna di quel tempo non ne sarebbe stata capace dato che, a prescindere dalla genialità di Dante, l’arte per secoli è stata appannaggio degli uomini. A una donna del tempo di Dante non veniva certo concesso di studiare (ancora adesso, 700 anni dopo, nell’era dei computer, in Italia ci sono zone dove alle femmine non è consentito di proseguire gli studi), e senza studio è difficile che nasca un’opera d’arte perché sarebbe dettata soltanto dall’ispirazione: una mera espressione di creatività.
La scrittura, invece, è un accordo armonico tra ispirazione e tecnica, e la tecnica nasce dalla fatica di studi costanti: proprio quelli che per secoli sono stati negati alle donne. Infatti, sorvolando su rarissime voci femminili quali sono state quelle della poetessa Nina da Messina del 1200 e della poetessa fiorentina Compiuta Donzella (forse uno pseudonimo), è soltanto nell’Italia del Cinquecento che si assiste a una particolare fioritura della poesia di donne, ad opera di Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Isabella di Morra e Veronica Gambara; tutte, eccetto la Stampa, di nobile estrazione.
Nel corso dei secoli ci saranno altre eccezioni, ma rimarranno appunto tali. Uno sparuto gruppo di scrittrici si comincia a vedere soltanto alla fine del Settecento, in Inghilterra e in Francia specialmente, dapprima negli ambienti nobili, dove un’infarinatura di istruzione veniva data anche alle donne, e col trascorrere degli anni anche nelle classi medie. Ma, in questo piccolo gruppo, erano molte ad essere additate come pazze o ridicole quando desideravano rendere pubbliche le loro opere.

D’altronde, prive di studi o comunque impossibilitate ad accedere a studi superiori, prigioniere di usi e costumi che limitavano la loro libertà, senza poter viaggiare o muoversi liberamente per le città, dipendenti economicamente da un uomo, padre, fratello o marito, magari madri di numerosi figli, l’arte non era certo una scelta facile per le donne. In più, come fa notare Virginia Woolf nel bellissimo saggio Una stanza tutta per sé, le donne non avevano neppure uno spazio privato, un luogo non soltanto reale, ma anche simbolico. Ora, se questa era la condizione generale della donna come artista in nazioni emancipate, in Italia la condizione era ancora più chiusa. Contando, ad esempio, i nomi degli autori sull’Antologia della letteratura italiana della Rizzoli, che va dal Duecento all’inizio della seconda guerra mondiale, si nota una netta prevalenza maschile: 570 uomini, 17 donne. Un’altra breve ricerca, questa volta sui due volumi di poesia del Novecento, editi da Garzanti nel 1980, dà risultati simili: 66 poeti e 7 poetesse; 38 critici letterari e di questi soltanto 2 sono donne.
Anche Patrizia Finucci Gallo, scrittrice e saggista, dall’osservatorio della sua scuola (la Stanton, che sulla scrittura delle donne tiene corsi periodici) afferma che risulta l’assenza di autrici nelle antologie scolastiche o comunque una loro presenza in bassissima percentuale.
In uno dei testi più diffusi nella scuola media sono risultate 3 autrici contro 56 autori; nei testi per le superiori sono citati 50 uomini contro la sola Amelia Rosselli; e in Otto secoli di poesia italiana ci sono otto donne, una a secolo.

Se adesso concentriamo la nostra attenzione sulla Calabria, il discorso si restringe perché le donne in Calabria non hanno avuto assolutamente voce, se non in questi ultimi anni. Bisogna tener conto però sino alla fine del 1600, la Calabria era come inesistente per il resto d’Europa. Soltanto nel 1700 arrivano i primi viaggiatori: poeti, scrittori, scienziati che aumentano di numero dopo il terribile terremoto del febbraio 1783. Nei resoconti dei loro viaggi, la Calabria appare un luogo selvaggio, un paradiso naturale dove però la gran parte della popolazione vive in perenne miseria. Non è adesso il caso di parlare delle terribili condizioni del tempo, però quello che mi preme sottolineare è che quando si lotta per la sopravvivenza quotidiana, e quando le condizioni sociali sono disastrose, la cultura è riservata ai pochissimi che hanno possibilità economiche o indossano l’abito talare. Naturalmente parlo di uomini, laici o monaci, non certo delle donne, relegate dalla tradizione a un ruolo subalterno e dedite esclusivamente alla famiglia, o alla preghiera e al ricamo nel caso di religiose.
Uno dei nomi che avremmo potuto trovare in una letteratura nazionale è quello di Giovanna Gulli, se non fosse morta giovanissima, all’età di 23 anni, nel 1939. La Garzanti le pubblicò il romanzo Caterina Marasca che uscì postumo nel 1940, e che rivela grande capacità narrativa e stilistica. Il suo periodare scarno, di forte impatto e privo di orpelli, si distacca dalla prosa aulica e infiocchettata del tempo.

Stessa modernità si riscontra nelle opere della poetessa Alba Florio, oggi novantunenne, conosciuta soltanto a livello regionale, mentre meriterebbe spazi nazionali, così come li meriterebbero le opere della scomparsa poetessa Gilda Trisolini.
Un altro nome che ricordo è quello di Paolina Gervasi Mantovani, scrittrice e poetessa di Cosenza, nata nel 1907 e morta nel 1999, alla quale è stata dedicata una via di Roma, ma che purtroppo è assente da molte antologie.
Un altro nome ancora è quello della scrittrice cosentina Giovanna Cavallo, che ha pubblicato con Baldini & Castoldi il romanzo Ho sognato i suoi occhi. Ma qui mi fermo perché la memoria potrebbe tradirmi, facendomi citare alcuni nomi e facendomi rischiare di dimenticarne altri. E nemmeno mi soffermerò a parlare di Renate Siebert e Anna Salvo, autrici da leggere assolutamente, perché pur vivendo in Calabria non sono però calabresi.
È importante comunque sapere che oggi in Calabria la situazione è migliorata: la donna ha conquistato visibilità letteraria, anche se le opere di alcune brave autrici non sono divulgate, come invece dovrebbero, a carattere nazionale.
Per quanto riguarda le donne protagoniste di romanzi e racconti calabresi, si tratta, in genere, di figure femminili che appartengono a una società patriarcale a carattere contadino.

Quindi: madri amorose, umili, obbedienti, dolenti perché i figli non hanno futuro, ma anche donne testarde, ostinate, che affrontano una vita di miseria e sofferenza con dignità e pazienza, nel segno di un divino al quale si affidano sottomesse.

Donne angeliche, ma anche streghe, ignoranti quasi sempre, ma con una loro saggezza nata dalle amare esperienze di una vita segnata dalla miseria e dal sacrificio. Una saggezza atavica che le costringe all’immutabilità e quasi mai alla ribellione.

Donne vittime, quindi, che conducono spesso un’esistenza drammatica. Anche quando le donne ritratte appartengono a un ceto sociale elevato sono comunque chiuse nel cerchio di un’esistenza ripetitiva e sottomessa al volere dell’uomo, a parte delle eccezioni.

Tra le eccezioni mi piace ricordare le donne di Bagnara, le famose “femminote”, che non hanno mai avuto bisogno di essere femministe perché la loro è una società a carattere matriarcale, discendenti come sono, secondo la leggenda, dalle Amazzoni.

Stefano D’Arrigo nel suo stupendo Horcynus Orca, romanzo di non facile lettura per il linguaggio sperimentale e simbolico che permea le pagine, ce ne ha dato una superba descrizione nella prima parte del libro, come risulta da queste brevissime frasi che ho estrapolato: “… il loro stile di vita, stile mascolo cioè di buscarsi la vita, consistette sempre in arraffamento di sale franco a Messina”; “… perché la vita può sonargli quanto e come vuole a lagrima, le femminote non le danno mai conto”; “… vi dovete scrivere a mente questo: che sono deisse, e se non le trattate per tali e non gli entrate nella divozione, voi, in Sicilia, per grazia loro, non ci arriverete mai”, “… Femminote e fere, nei caratteri, in tutto, si trattavano…cioè erano intrinseche e avevano lo stesso sangue, perché discendevano tutte e due, per gradi, dalle sirene”.

Che non ingannino però queste parole sulle reali condizioni delle donne di Bagnara che tenevano in mano sì le redini della famiglia, ma pagavano la loro intraprendenza a caro prezzo perché faticavano molto più dei loro uomini, esattamente come avveniva in ogni parte della Calabria: l’unica differenza consisteva nel loro non essere subalterne.

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