Il ruolo dello scrittore nella società meridionale


Tempo fa mi avevano chiesto quale fosse, a mio avviso, il ruolo di uno scrittore nella società in genere e, particolarmente, in quella meridionale. Da ragazza, quando ancora non sapevo che avrei scritto, e leggevo romanzi struggendomi dal desiderio di capire come fosse possibile creare mondi inesistenti, e persone fatte di parole che spesso apparivano più vere delle persone reali, credevo di sapere chi fosse lo scrittore e quale fosse il suo ruolo. Innanzitutto lo scrittore possedeva la capacità di dar voce a chi non ne aveva; aiutava il lettore a scoprire e a capire meglio sé stesso, aprendogli sconosciute strade interiori; indagava sul passato svelandone aspetti che magari gli storici non avevano saputo cogliere; preannunciava il futuro in quanto un artista sa captare gli umori della società e, spesso, riesce a prevedere lo svolgersi di ciò che la agita o che la immobilizza (riguardo a quest’ultimo punto mi piace citare Corrado Alvaro con il romanzo L’uomo è forte, del 1938, che prefigura il clima di terrore in cui cadrà gran parte del mondo e che sfocerà nella Seconda Guerra Mondiale).
Ecco, questo era per me il ruolo di uno scrittore in qualsiasi società: un ruolo di denuncia, di ammonizione, di prefigurazione, che traspare attraverso le opere. Lo scrittore esorta, avverte, indica, svela, attraverso le sue storie e i personaggi. Un ruolo utile, come sosteneva l’anarchico Alexandre Marius Jacob che nella Francia di fine ‘800 rubava ai ricchi per dare ai poveri (a lui si ispirò Maurice Leblanc per il suo Arsenio Lupin, come racconta Pino Cacucci in Ribelli), ma che non derubava mai insegnanti, medici e scrittori perché persone utili alla società.

Con gli anni ho poi scoperto che anche quando si scrive del mondo si scrive comunque di sé, dipanando grovigli interiori, esorcizzando la propria angoscia, visualizzando il dolore, e mi sono resa conto che, se pure parte delle cose che pensavo erano vere, un ruolo ben definito non c’era perché avere un ruolo significa incidere sulla società, significa riuscire a modificarla. E questo sì che può avvenire, però a volte la società impazzisce. E allora, quando una società impazzisce, che ruolo ha uno scrittore?
Dico così pensando alla società nazista e a scrittori come Musil, Heinrich e Thomas Mann, Remarque, Brecht, Feuchtwanger, Koestler, e tantissimi altri in ogni campo dell’arte e della scienza, costretti ad andar via per non essere uccisi, mentre le loro opere venivano date alle fiamme nell’intento, neppure molto simbolico, di purificare lo spirito tedesco. Brecht, ad esempio, parlando del teatro musicale che faceva con Kurt Weill (famosissima è L’opera da tre soldi), sosteneva che lo scopo del teatro deve essere il cambiamento della società e che ogni opera deve provocare a livello politico e filosofico. Ma dinanzi alla brutalità del regime hitleriano le parole degli artisti sono servite a poco, anzi non sono servite a nulla.
Quasi identica cosa è successa nella Russia stalinista, dove c’è stata un’ecatombe di intellettuali. E, nei decenni passati, molti autori dell’Est sono stati costretti a emigrare: Milan Kundera, i russi Brodskij e Solzenicyn, per citarne alcuni.

Anche lo scrittore indiano Salman Rushdie, in questi ultimi anni, ha dovuto vivere nascosto a causa della fatwah (adesso ritirata) pronunciata dall’ayathollah Khomeini per il romanzo I versi satanici, bruciato dai fondamentalisti islamici; una condanna a morte che ha colpito tantissime persone: il traduttore giapponese del libro, ucciso a pugnalate, e trentasei ospiti di un albergo turco, incendiato dai fondamentalisti, dove si trovava lo scrittore Aziz Nesin, “colpevole” d’aver tradotto in turco alcuni brani dei Versi satanici; condanna che, per fortuna, ha risparmiato Ettore Capriolo, il traduttore italiano rimasto soltanto ferito. Tutti episodi, questi come moltissimi altri, che danno ragione al poeta Heinrich Heine quando nella tragedia Almansor scriveva che “là dove si danno alle fiamme i libri, si finisce per bruciare anche gli uomini”.
In riferimento poi alla società meridionale, non so davvero che cosa dire, specialmente dopo i tanti e continui fatti di delinquenza organizzata: si spara e si è sparato, anche contro bambini; si corrompe e si è corrotti in una continua altalena tra forze negative e forze positive, che pure sono tante. E in ogni parte del mondo si calpestano la dignità, la libertà e i diritti degli esseri umani. Insomma, io davvero non so qual è il ruolo di uno scrittore non solo nella società meridionale, ma in qualunque società quando la violenza e l’ingiustizia hanno il sopravvento.

Però continua a piacermi molto quello che diceva Voltaire: “Mentre le folli ambizioni dei sovrani devastano l’Europa, gli uomini di cultura ne fanno un solo popolo dall’Italia alla Finlandia”. E siccome preferisco essere ottimista, credo di aver trovato una soluzione ai miei dubbi: quindi sì, è vero che dinanzi alla violenza l’arte non può nulla, ma voglio credere che, siccome i libri educano le menti, prima o poi il loro insegnamento intacca qualsiasi società governata da un potere liberticida o, comunque, qualsiasi società ingiusta.

A convincermi di questo è proprio il rogo dei libri, una pratica che data dall’antichità e che si ritrova in ogni parte del mondo. Infatti, come si legge in un breve saggio del grande sociologo Leo Löwenthal, il primo rogo risale al 220 a. C. in Cina. Anche Shakespeare, nella seconda scena del terzo atto della tragedia La tempesta, fa dire all’ottuso schiavo Calibano, nel tentativo di convincere Trinculo e Stefano ad uccidere l’umanista Prospero,: “nel pomeriggio, come ti dicevo, ama dormire: allora lo puoi uccidere: -ma, prima, cerca di levargli i libri- …Prima, ricorda di levargli i libri: senza libri, è uno sciocco come me, e non ha un solo spirito al comando; …Ma brucia i suoi libri!

Dunque, i libri si bruciano perché possiedono potere. Per Calibano si tratta di un potere soprannaturale; per la società del romanzo Fahrenheit 451 di Ray Bradbury (il titolo è dato dalla temperatura alla quale la carta prende fuoco) si tratta di un potere destabilizzante che sconvolgerebbe il suo tranquillo assetto di società omologata, dipendente dalla televisione e priva di ogni inquietudine intellettuale.
Soprannaturale no, ma destabilizzante sì, perché davvero i libri possiedono il potere della conoscenza e risvegliano le coscienze più intorpidite, incitandole ad opporsi a qualunque prevaricazione.

E allora, forse, il ruolo dello scrittore si trasforma da simbolico a forza attiva, vivificatrice: attraverso le pagine, viene custodita l’autonomia del pensiero, la dignità, la salvaguardia dei valori e, quindi, la libertà.

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