Omertà: diciamola tutta (e senza reticenze) dicembre 2002


I delinquenti sono giustamente omertosi, se non lo fossero la mafia, la ‘ndrangheta, la camorra e la sacra corona cesserebbero di esistere.
Il guaio è che il mondo generalizza, e così noi tutti meridionali siamo considerati i portabandiera dell’omertà, anche quando con la delinquenza organizzata non c’entriamo proprio niente.
Vero è che spesso, da semplici e onesti cittadini, essendo stati testimoni di un reato abbiamo preferito non denunciarlo, trincerandoci dietro i “non so” o “non ricordo” per paura di ritorsioni che sempre sono arrivate puntuali a stroncare la vita di chi era pronto a fare il proprio dovere.
Ricordo un’inchiesta televisiva sulla faida di Seminara (credo risalga a circa trent’anni fa) che mi è rimasta impressa per una frase pronunciata da un intervistato. Alla domanda se fosse al corrente di quello che stava accadendo, l’uomo ha risposto in dialetto: “io non c’ero, e se c’ero dormivo, e se dormivo sognavo di non esserci”.
A prescindere dal fatto che è assurdo pensare di rilasciare una testimonianza davanti a un microfono -casomai si rilascia in apposita sede- bisogna tener conto delle cause storiche e sociali che hanno originato la nostra antica diffidenza verso lo Stato e i suoi rappresentanti (basta aver letto un buon libro sulla storia del Meridione per capirle), ma anche della lentezza dei processi, dell’annullamento degli stessi per un cavillo giuridico o per decorrenza dei termini, fatti questi ultimi che comportano spesso la scarcerazione dei delinquenti. In più, come successo recentemente, testimoni in processi di mafia che prima avevano un tenore di vita agiato, non solo si ritrovano lontani dagli affetti e con abitudini sociali stravolte, ma ne risentono anche economicamente.
Vacilla, così, nei cittadini la fiducia nello Stato.

Adesso però vorrei soltanto sfatare il luogo comune che vuole omertosi tutti i meridionali, come se l’omertà fosse connaturata al loro carattere, e mi limiterò a tre piccoli esempi. Il primo è dato dal libro I misteri di Alleghe dello scrittore Sergio Saviane. Non si tratta di un romanzo, ma di un’inchiesta che portò alla scoperta di una serie di efferati delitti, commessi ad Alleghe, paesino in provincia di Belluno, nel Veneto: profondo nord d’Italia.
È inutile raccontare la storia (pubblicata negli Oscar Mondadori), mi limiterò quindi a riportare alcune frasi estrapolate dall’introduzione, scritta dallo stesso Saviane: …Ma rimane soprattutto, con questi fatti atroci, la testimonianza del clima di terrore, di paura e di omertà di un paese di montagna che, malgrado fosse lambito e toccato dal turismo e dal progresso, si era sempre rifiutato, per paura, di prendere coscienza di tanti misfatti, accaduti dal 1933 al 1946, denunciati con la mia inchiesta nel 1952, e scoperti dai carabinieri solo nel 1958.
In altre parole, mentre negli alberghi e per le strade di Alleghe c’era la vita, a volte spensierata, della villeggiatura, i balli, il turismo, dentro le case, i negozi, le osterie del paese, nei villaggi circostanti covava un grande segreto, un incubo di morte tenuto però gelosamente segreto nel cuore di ogni valligiano. …dopo la scoperta dei delitti, molti di questi amici si sono chiusi in se stessi, alcuni mi hanno mandato a dire di girare al largo se non volevo farmi spaccare i denti con le mazze da hockey su ghiaccio … forse ho tradito qualcuno nel rivelare le trame dei delitti che, per tanti anni, col silenzio complice e la paura di un intero paese, sindaci, assessori e magistrati compresi, erano delitti di tutti
. …Invece sarebbe ora di dire una volta per tutte che Alleghe è stato, prima, un covo di delitti, e, subito dopo i delitti, un luogo di tremenda omertà. La frase “nei villaggi circostanti” sono stata io a sottolinearla perché il silenzio non era limitato solo ad Alleghe; in più, quando i colpevoli intentarono un processo contro Saviane, nel 1953, conclusosi con la condanna dello scrittore a otto mesi di carcere, non si presentò nessun testimone a suo favore; infine, quando gli autori di questi terribili delitti finirono in galera, invece di gratitudine, Saviane perse molti amici di Alleghe. Se questa storia, purtroppo vera, fosse stata raccontata in un romanzo, state certi che l’autore sarebbe stato accusato di aver sbagliato l’ambientazione.

Il secondo esempio ci viene dal libro La casa dipinta di John Grisham, autore in genere di legal thriller, che però in questo caso entra nel grande filone del romanzo autobiografico americano. Siamo nei primi anni del Cinquanta, nell’Arkansas delle immense piantagioni di cotone, tra i braccianti che buttano la vita nei campi e, benché l’emigrazione in America abbia in quel periodo già svuotato le nostre campagne, nel libro non c’è traccia di italiani, che preferivano vivere nelle metropoli. Un sabato, come accadeva di solito, in paese scoppia una rissa durante la quale viene ucciso un uomo. L’assassino è uno stagionale di montagna che con i suoi trascorre mesi a raccogliere il cotone nei campi della famiglia Chandler. Il vicesceriffo Stick, indagando per scoprire l’omicida, arriva a casa dei Chandler.
Dannazione! imprecò Stick….. Nessuno sa niente. Nessuno ha visto niente. Mezzo paese era dietro la Co-op, ma nessuno sa un cavolo di niente.” ….. Lì per lì Stick parve convenirne, ma non era disposto a mollare. “Questo, se dice la verità. Avrà bisogno di testimoni, e allo stato attuale sono come le mosche bianche.”

Il vicesceriffo pronuncia la seconda frase in rapporto alle parole del protagonista, il piccolo Chandler, un bambino di sette anni, che ha assistito alla rissa e conosce esattamente come si sono svolti i fatti. Ma il piccolo mente su un particolare che porterebbe all’arresto dell’assassino, e questo perché la verità rovinerebbe economicamente la sua famiglia, dato che, con l’arresto di uno dei loro, i lavoranti stagionali se ne andrebbero e il cotone marcirebbe nei campi. Il resto della famiglia Chandler, nonni e genitori, tutti di profondissima fede religiosa, onesti e rispettosi delle leggi, contrari alla più piccola bugia, sperano che il bambino non dica la verità, e lui mente, pur avendo la certezza di andare all’Inferno, come gli hanno sempre detto che succede ai bugiardi.

Il terzo esempio è tratto dal bellissimo libro di Erich Maria Remarque L’obelisco nero. Il romanzo prende il titolo appunto da un obelisco che la ditta di monumenti funerari, presso la quale lavora il protagonista, non riesce a sbolognare perché troppo di cattivo gusto. Nonostante ci si trovi immersi nel dramma di una Germania affogata nell’inflazione, e che si prepara all’incubo del nazismo, il tono del libro è ironico, si sorride e si ride spesso, anche se in modo amaro. Siamo quindi in Germania, nel periodo seguente alla prima guerra mondiale, e la ditta sopravvive a stento perché il marco non vale più nulla; finalmente, però, ottiene un’ordinazione per il monumento ai Caduti nel villaggio di Wüstringen. I protagonisti sono costretti a partecipare all’inaugurazione e ad ascoltare gli sproloqui di Wolkenstein, un guerrafondaio locale, antisemita e nazionalista, che tuona contro i pacifisti. Le bandiere sventolanti sono quelle proibite, nero-bianco-rosse del vecchio impero. Soltanto sull’ultima casa del villaggio, dove abita il falegname socialista Beste, sventola la bandiera ufficiale nero-rosso-oro della repubblica tedesca.

Il falegname è un ex soldato che in battaglia si è preso una pallottola nel polmone, tuttavia viene definito traditore da Wolkenstein, il quale organizza con i suoi accoliti un pestaggio che si risolve con la morte del falegname. Non si trova, però, nessun testimone, nonostante la folla. I nostri protagonisti, indignati da questa brutalità, sono seduti in un’osteria, dove entra un operaio che, testimone del fatto, racconta loro come si è svolto l’accaduto.
Georg, uno dei proprietari della ditta, interviene dicendo: "«…Un assassinio chiama in causa il procuratore della repubblica. E in più c’è l’istigazione.»
L’operaio si ritrae di colpo. «Io non c’entro in tutto questo! Io non so nulla!»
«Lei sa moltissime cose. E così tanta altra gente.»
L’operaio vuota il suo bicchiere di birra. «Io non ho detto nulla» dichiara deciso. «E non so nulla. Può immaginare che cosa mi accadrebbe se non tenessi il becco chiuso? No, signore, no. Io ho moglie e bambino e devo vivere…»
Se n’è andato. «E così sarà con tutti» dice Georg scuro in volto."
Naturalmente di storie così ce ne sono tantissime altre, e in ogni parte del mondo. Ma credo che bastino queste tre. Non si tratta però di “mal comune, mezzo gaudio”. Molto più semplicemente è che m’infastidiscono le etichette negative. E noi ne siamo sommersi. Certo, la Calabria conta innumerevoli mali, e molti sono da attribuire a noi stessi: se tutti, indistintamente (ma in particolare chi ricopre un ruolo pubblico) ci sforzassimo di pensare al bene degli altri e non solo al nostro, ne faremmo una regione magnifica. E magari qualche altra etichetta sparirebbe.

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